Fin dai tempi più antichi l’uomo – come ogni altra specie sul pianeta – ha interagito con la natura in base a un imperativo dominante: sopravvivere. Per lunghissimo tempo tale imperativo si è fondato, oltre che sul bisogno di proteggersi da ambienti climatici a volte molto avversi, soprattutto sulla capacità di risolvere a proprio favore l’alternativa tra mangiare o essere mangiato.
Vagabondando alla ricerca di cibo dalla notte dei tempi, l’uomo ha cercato di sopravvivere principalmente in due modi: la raccolta di ogni possibile oggetto commestibile e la caccia.
Continuamente esposti alla possibilità di divenire cibo essi stessi, i nostri progenitori hanno sviluppato capacita di intervento sulla natura sempre più articolate, ben prima dell’adozione dell’agricoltura, avvenuta circa quindicimila anni fa.
Il cibo ha da sempre avuto come costante la capacità dell’uomo di modificare ciò che gli è intorno, di manipolare e creare artefatti, di fare, insomma, una cultura che si presenta come contrapposta alla natura. La storia del rapporto tra uomo e cibo si configura così come un’epopea sociale e culturale.
L’argomento della cultura nel cibo è senza dubbio affascinante quanto vasta, dal momento che l’alimentazione, in quanto aspetto basilare dell’esistenza dell’uomo, si è legata, nel tempo, con altri ambiti della vita, come la religione, il ruolo sociale, di potere e di genere.
Quello di cui vogliamo parlare è il “dilemma dell’onnivoro”, un concetto affinato dallo psicologo Paul Rozin, secondo cui l’uomo deve dedicare un’enorme quantità di energia mentale per affinare gli strumenti cognitivi e sensoriali atti a distinguere quali alimenti, tra i molti disponibili, sono sicuri da mangiare. In tal senso, questo sforzo è da considerarsi parte essenziale dei processi culturali.
E tale dilemma è cresciuto nel corso dei secoli, man mano che le tecniche di produzione alimentare si sono sviluppate e diffuse, ma anche grazie all’evoluzione delle tecniche di trasporto e comunicazione, fino ad arrivare al giorno d’oggi, in cui una persona che abita in una grande metropoli di un paese occidentale, entrando in un supermercato, trova una quantità di prodotti e varietà alimentari pressoché sconfinata. E scopriamo ora perché questo dilemma sembra aver fatto scattare una necessità di ritorno alle origini, di nostalgia verso una certa primordialità del rapporto con il cibo.
Come scrive Pollan: “Quando è possibile mangiare quasi tutto ciò che la natura ha da offrire, decidere cosa e bene mangiare genera inevitabilmente una certa apprensione, soprattutto se certi cibi possono rivelarsi dannosi per la salute o addirittura letali”.
È questa la faccia moderna del dilemma dell’onnivoro. Stordito dall’eccesso di offerta e di informazioni, non in grado di conoscere a fondo i processi industriali, la composizione del cibo, le conseguenze per la salute di ciò che ingerisce, l’uomo fatica a effettuare le sue scelte.
Nasce, così, una domanda sempre più forte di autenticità, che si lega alla riscoperta della sostenibilità in tutte le sue declinazioni (ambiente, salute, rapporti sociali) e che chiama in causa l’industria alimentare, cui chiede di assumersi nuove responsabilità.
È un punto di svolta. Si apre oggi, sul versante degli stili alimentari, la possibilità di ripensare secondo nuove chiavi di lettura il rapporto con il cibo. I tratti emergenti di questo nuovo approccio potrebbero essere – secondo l’analisi di Zygmunt Bauman – situati all’incrocio tra il piacere dell’esperienza sensoriale e la richiesta di una comodità situazionale che consenta di godere appieno del cibo gustato.
Il tratto della velocità, divenuto un elemento caratteristico della nostra epoca, influenzerà significativamente il nostro rapporto con il cibo. Ciò introduce altre dimensioni rilevanti: dall’esigenza di semplificazione delle procedure di preparazione del cibo (per guadagnare il tempo che oggi manca e supplire la perdita di cultura alimentare che impedisce di operare autonomamente in questo ambito), alla nozione di portabilità, intesa come facilità di applicazione dello stile alimentare desiderato anche all’interno di una società in movimento sempre più frenetico.
Anche la ritualità è una dimensione potenziante del rapporto con il cibo. Il recupero degli aspetti rituali potrà conferire una dimensione di senso e rassicurazione che contribuirà a rendere più intensa l’esperienza del mangiare.
In sintesi, il futuro ci riserverà il tentativo di una reinterpretazione costruttiva del rapporto con il cibo, nel tentativo di conciliare le dinamiche sociali del nostro tempo con un approccio salutare e positivo all’alimentazione. Detto con uno slogan, tre sono gli imperativi di oggi: rientrare in contatto con la dimensione culturale del cibo, ridefinirne il piacere, diffonderne il sapere.
Articolo estratto da "Eating planet. Nutrirsi oggi: una sfida per l'uomo e per il pianeta", Edizioni Ambiente